Chef Giorgio Rosato: un Professionista in continua Evoluzione

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Chef Giorgio Rosato, un Professionista poliedrico, appassionato e capace, che eccelle in ogni suo campo di applicazione grazie alla volontà, alla curiosità e alla voglia di volare sempre verso nuove mete. Da allievo del Corso di Chef Professionista della nostra Accademia, ad Executive Chef Consultant di uno dei più noti Ristoranti delle Langhe: Il Ristorante Vittorio Veneto.
Giorgio Rosato ha recentemente vinto il Concorso indetto dalla nostra Scuola di cucina, dedicato al maestro Massimo Bottura.
Lo abbiamo raggiunto per farvelo conoscere meglio e per rendervi partecipi della sua incredibile storia di successo.
Buona lettura!

Da Giornalista impegnato nel settore dell’Automotive, ai fornelli. Come ha avuto inizio la tua passione per la cucina?

La passione per la cucina viene da lontano, dai tempi del liceo, quando si organizzavano le cene in casa per far colpo sulle ragazze.
Passione notevolmente ampliatasi all’epoca dell’università, quando studiavo a Roma e preparare il pranzo era diventata un’esigenza quotidiana.
Una passione ulteriormente incrementata quando ho iniziato a viaggiare intorno al mondo.
Finora sono stato in 71 Paesi in tutti e cinque i continenti e da ogni viaggio e da ogni esperienza gastronomica ad essi legata ho tratto ispirazione per la realizzazione delle mie ricette.

E la scelta di iscriverti all’Accademia Italiana Chef? Cosa ti ha spinto a frequentare il Corso di Chef?

L’iscrizione all’Accademia Italiana Chef è stata la naturale evoluzione del mio percorso didattico/formativo intrapreso tre anni fa, quando ho deciso di dare spessore alla mia passione per la cucina iscrivendomi a Torino ad una scuola di cucina per diventare cuoco professionista. Analogamente all’inizio della mia carriera giornalistica quando, iniziando come semplice collaboratore in un giornale di automobili, ho percorso tutte le tappe della gerarchia redazionale fino a diventare direttore responsabile della testata, anche per la cucina volevo procedere allo stesso modo. Nella primavera dello scorso anno, prima degli esami del diploma di cuoco professionista, ho fatto una lunga e accurata ricerca online e alla fine non avevo dubbi sulla scuola che avrei scelto per diventare chef professionista.

Sei il vincitore del Concorso Fotografico Nazionale dedicato al Maestro Massimo Bottura. Secondo te, quanto è importante l’estetica nei piatti?

L’estetica del piatto è importante, direi fondamentale, ma attenzione non è un elemento che deve prevaricare i sapori e i gusti degli ingredienti utilizzati per la sua realizzazione. In altre parole deve esserci sempre un buon equilibrio nel piatto in maniera tale che il contenitore (tipo di impiattamento, colori e dimensioni del piatto, decorazioni, etc) non prevalga mai sul contenuto (prodotti di altissima qualità, armonia dei sapori e freschezza degli ingredienti), come avviene purtroppo sempre più spesso nel mondo dell’arte dove il pubblico accorre nei musei soprattutto per ammirare le sue ardite geometrie esterne, create alla archistar, che non i capolavori custoditi nelle sale.

Raccontaci il piatto con il quale hai partecipato al Concorso. Come è nata l’idea di realizzare “Trilogia ai ricci di mare”?

L’idea del piatto con il quale ho partecipato al Concorso dedicato al Maestro Massimo Bottura è nata dalla mia collaborazione con la Blu Rhapsody, l’azienda che produce la pasta 3D, avviata già dallo scorso dicembre quando ho presentato uno dei miei piatti per la tesina d’esame proprio utilizzando la pasta 3D.
Uno dei formati più caratteristici di questo tipo di pasta realizzata con una stampante è quella dei “Sea Urchin“, per cui avevo trovato il primo elemento della trilogia. Il secondo non poteva essere che la polpa di riccio di mare, ingrediente scelto per la farcitura della pasta, mentre come terzo elemento ho creato un “riccio dissimulato”, formato da una quenelle di burrata con nero di seppia e spaghetti fritti.

Innovazione o Tradizione in cucina?

A proposito di innovazione oggi si parla spesso, forse troppo, di cucina creativa. E direi che questa definizione, a mio avviso spesso abusata, non mi soddisfa appieno. Va sottolineato infatti che la cucina è per antonomasia una disciplina creativa e ogni ricetta nasce e si realizza attraverso una magica alchimia chimico-fisica le cui radici affondano proprio nella tradizione. Per questo parlare di cucina creativa potrebbe sembrare quasi una sinonimia, ma se volessimo circoscrivere i suoi confini e azzardare comunque una definizione, potremmo dire che la cucina creativa consiste nel realizzare qualcosa di nuovo ai fornelli senza stravolgere gli ingredienti originali.
Certamente non è cucina creativa aggiungere la panna alla pasta alla carbonara, o utilizzare la pancetta in quella all’amatriciana. Ma non è cucina creativa neanche avere un’infarinatura di food pairing e scoprire che alcuni abbinamenti (caviale/cioccolato, banane/prezzemolo, salmone/liquirizia) sono particolarmente aromatici. Né inserire alla rinfusa sferificazioni, spugne, arie, bolle di fumo, e quant’altro oggi di moda.
Lo chef deve sforzarsi di trasformare gli ingredienti della cucina tradizionale in una esperienza multisensoriale, in grado di soddisfare le esigenze di un palato immaginario sempre più esigente, attingendo dalla tradizione e dando ai suoi piatti la giusta dose di innovazione; oltre ad impegnarsi costantemente verso una ricerca incessante, librandosi in cucina con la leggerezza del gabbiano Jonathan Livingstone, costantemente alla ricerca di traiettorie ardite e nuove soluzioni di volo.

Cosa è per te la cucina Gourmet?

Prima di parlare di Cucina Gourmet è necessaria una breve digressione sul termine gourmet, introdotto per la prima volta in Francia verso la metà del ’700. Nonostante all’inizio non avesse alcuna valenza positiva (tradotto da francese vuol dire “buongustaio”), nel corso degli anni ha subito una radicale trasformazione da quando veniva usato in riferimento all’esperto addetto alla degustazione dei vini e, successivamente, ad una persona dal palato fine che si intendeva di buona cucina.
In epoca più recente la cucina gourmet ha avuto uno sviluppo notevole anche oltreoceano, soprattutto nell’America degli anni Ottanta, dove diventa una delle tendenze gastronomiche preferite dai ceti più abbienti, fino ad arrivare all’inizio del nuovo millennio quando alla cucina gourmet si sovrappongono le varie tendenze eco-salutistiche con le quale ogni chef deve oggi confrontarsi.
Con la metamorfosi della cucina in arte culinaria la parola gourmet ha subito inoltre una ulteriore evoluzione, fino ad essere utilizzata per definire l’eccellenza (sia qualitativa che nella preparazione) di un determinato piatto per cui oggi sentiamo spesso parlare di pizza-gourmet, hamburger-gourmet, pastry-gourmet, etc.
In Italia, spesso penalizzata dall’atavico ruolo di colonia nei confronti delle tendenze culturali provenienti dagli altri Paesi europei e dalla cultura “a stelle e strisce” d’oltreoceano, il concetto di Cucina Gourmet viene ancora oggi valutato impropriamente o, nel migliore dei casi, con scarsa approssimazione. Soprattutto perché abbinato troppo spesso ad un abusato stereotipo di cucina, sofisticato nella forma ed estremamente stringato nella sostanza (si parla sempre di porzioni minime e prezzi oversize), ma la realtà fortunatamente è diversa. Dal mio punto di vista la Cucina Gourmet è una cucina di qualità basata su alcuni parametri riconducibili ad una grande armonia dei sapori espressi nel piatto, che tengano conto delle diverse tendenze aromatiche dei vari elementi presenti, unita ad un’estrema cura nel dressage (dove l’equilibrio nella preparazione, come ho già sottolineato, non deve però mai far prevalere il contenitore rispetto al contenuto) e, last but not least, anche il comportamento dello chef deve essere sempre all’insegna della massima onestà intellettuale e del rispetto dell’etica professionale.
Un esempio: nella tesina presentata all’esame finale per il conseguimento del diploma di “Chef professionista” ho dovuto preparare un menu di quattro portare, una delle quali prevedeva l’utilizzo dell’Asparago di Badoere IGP Verde. Ma quando ho sostenuto l’esame (nel mese di dicembre) non si trovavano asparagi freschi sul mercato e, ovviamente, non volevo utilizzare prodotti congelati. Mi sono rivolto allora al mio fornitore di fiducia che mi ha fatto arrivare direttamente dal Perù una cassetta di asparagi freschi, anche se di qualità non paragonabile a quella che avevo scelto. Naturalmente tutto questo l’ho scritto (e documentato) nella presentazione della mia tesi.
Lo stesso andrebbe fatto anche sui menu di molti ristoranti, dove spesso manca l’asterisco vicino ai prodotti surgelati o si usa con eccessiva disinvoltura la locuzione “pescato del giorno” per indicare il pesce fresco; in realtà questa definizione andrebbe utilizzata soltanto quando il pesce fresco è stato pescato in mare e non è consentita per i pesci (anche se freschi) provenienti dall’itticoltura.

Oggi sei Executive Chef Consultant presso il “Vittorio Veneto”, uno dei più noti e apprezzati Ristoranti delle Langhe e Roero. Quali sono degli insegnamenti che hai appreso in Accademia e che utilizzi nel tuo lavoro quotidiano?

Gli insegnamenti appresi in Accademia sono stati per me preziosissimi e, al di là delle specifiche legate alla cucina, mi hanno letteralmente spalancato un universo sulla gestione dell’attività ristorativa. Attualmente, a circa tre mesi dal mio insediamento, sono nella fase iniziale del mio lavoro e ho avuto la fortuna e il privilegio di inserirmi in una struttura altamente professionale e ben collaudata per cui nel lavoro quotidiano del Ristorante non ci sono state finora particolari trasformazioni. Sono in cantiere tuttavia numerosi progetti di upgrading che, per ovvi motivi di riservatezza, e per scaramanzia, non posso ancora rivelare.

Hai progetti culinari per il futuro?

Il lavoro di Executive Chef Consultant al ristorante Vittorio Veneto rappresenta al momento il mio impegno prioritario anche se, pur considerandolo un importante e prestigioso risultato, sono consapevole che non sia un traguardo ma solo un’altra tappa nella mia carriera professionale. Tra i progetti collaterali sto portando avanti da tempo un intenso percorso di ricerca sul fronte della cucina creativa, un argomento che mi appassiona molto. E che non significa soltanto, per fare altri esempi rispetto a quelli già illustrati, saper dosare al meglio il pepe di Sichuan e il sale di Maldon, o sostituire in un primo di mare la bottarga con il lattume.
La mia ricerca si spinge oltre ed investe prima di tutto la scelta di ingredienti, rigorosamente di primissima qualità, abbinata un intransigente rispetto della stagionalità dei prodotti, per passare quindi all’utilizzo di tecniche di cottura innovative. Come la cottura sottovuoto a bassa temperatura con la barretta di neoprene, al cui interno viene inserito uno speciale ago sottile per il rilievo della temperatura interna della carne.
Tra i progetti nel cassetto infine, comuni alla maggior parte degli chef (anche se non tutti lo ammettono) si insinua sempre, prima o poi, l’dea di aprire di un proprio ristorante. Anch’io non sono immune da questa ambiziosa e seduttiva tentazione, ma sarei orientato verso un locale molto esclusivo e alto di gamma, con al massimo 25/30 coperti, in grado di offrire una cucina di qualità che, pur rimanendo nel solco della tradizione italiana, non sia estranea da contaminazioni varie e dall’utilizzo di tecniche innovative.

Quale messaggio vorresti trasmettere a chi sogna un futuro nel mondo della Ristorazione professionale?

Uno solo, formato da tre parole: lavoro, lavoro e lavoro
Partendo sempre, con umiltà e determinazione, dai gradini più bassi della cucina per procedere a piccoli passi verso il podio, senza arrendersi mai alle prime difficoltà e riprovare tante e tante volte quella ricetta che sulla carta sembrava favolosa, ma che una volta nel piatto evidenzia diverse criticità. E anche studiare tantissimo, nonostante gli ingredienti in cucina siano più o meno sempre gli stessi. Come avviene nel campo musicale con le note. Sono solo sette, ma i risultati che si ottengono dalla loro combinazione possono essere molto diversi: qualcuno riesce ad assemblare al massimo sul pentagramma un motivetto orecchiabile, capace magari di scalare per qualche settimana le hit parade estive, mentre altri creano capolavori come “Yesterday”, melodia evengreen da cinquantaquattro anni che, oltre ad essere premiata nel 1999 come la “canzone più bella del ventesimo secolo”, ha avuto fino ad oggi oltre 1.600 cover.