La Storia di Successo di Arnaldo Amlesu | dal Corso di Cuoco AIC

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Ecco a voi l’intervista con lo Chef Arnaldo Amlesu, Patron del ristorante Estro, Vegetariano Gourmet con una marcia in più.

Dal diploma dell’Accademia alla specializzazione in uno stile di cucina difficile e competitivo, nel quale Arnaldo ha saputo distinguersi conquistando i favori del pubblico e della critica.

Parlami un po’ di te e del tuo percorso verso la ristorazione professionale.

Vengo dalla comunicazione. Ho fatto l’art director prima e poi il direttore creativo in note agenzie di pubblicità. Capire che il cibo fosse uno strumento di comunicazione e il mangiare una forma comunicativa capace di sucitare emozioni però non è stato immediato. 
Spesso si mangia in maniera istintiva e senza consapevolezza, non dando peso all’atto in sè e alle emozioni che il cibo riesce a suscitare. Eppure i neonati piangono se non gli si dà loro da mangiare, e ritornano tranquilli quando lo ricevono. E i gatti fanno le fusa mentre mangiano dalla loro ciotola. E per conquistare la fiducia di un animale che non conosciamo allunghiamo la mano porgendoli del cibo. E il profumo del ragù della domenica fatto dalla mamma si fissa nella memoria come un segno del suo amore, mentre il sapore del pane caldo ci dà un senso di casa e di accoglienza. E se vogliamo corteggiare qualcuno sicuramente l’invito a cena non può mancare. Amore, ricordo, tranquillità, confidenza, amicizia, appagamento, serenità: tutte emozioni di cui tutti abbiamo bisogno, perchè senza si muore.
C’erano sì, un sacco di tracce, ma non capivo dove mi avrebbero portato. Diciamo che c’era qualcosa in embrione, ma non ancora percepito, ancora nebuloso, ma fortemente attraente.
Cosi in una fase in cui la mia professione dava i primi segni di stanchezza e di minore creatività ho pensato che dovevo trovare nuovi stimoli e acquisire nuove conoscenze. Sentivo che c’era un nesso, un collegamento nascosto che univa il mio vecchio lavoro di creativo alla mia nuova mansione di chef ma non capivo ancora quale. Ma ero certo che c’era. 
Sentivo la stessa magica attrazione che da ragazzo mi aveva portato quasi senza accorgermi a passare dagli studi di disegnatore aeronautico a quelli più affascinanti e misteriosi della comunicazione pubblicitaria e dopo essermi laureato a pieni voti a catapultarmi nel mondo delle agenzie.
Ora l’attrazione la suscitava la cucina. Ma non era un tradimento… sentivo che era il passo successivo. Sentivo che dovevo capire, dovevo comprendere. Dovevo imparare nuove cose. La comunicazione come arte, con finalità e obiettivi. La cucina alla stessa maniera come arte, con finalità e obiettivi. La prima appresa, la seconda tutta da apprendere.

Com’è stata la tua esperienza come studente dell’Accademia Italiana Chef e del susseguente stage?

Sono state le lezioni in Accademia, non so se in maniera diretta o indiretta, a farmi scorgere l’anello invisibile che univa il mio precedente percorso professionale al nuovo ancora da intraprendere. Svelandomi una cosa tanto banale quanto ai più sconosciuta, ovvero che un bravo cuoco non deve solo saper spadellare, ma deve conoscere la chimica, deve sapere di antropologia, di sociologia e perfino di pubbliche relazioni. Perchè la sua cucina non deve essere solo buona, ma deve percepire i gusti e i “piaceri” dei suoi clienti che oggi non sono più tali, ma ospiti. Deve mostrarsi a loro dedicata, attenta, curata, salutare ed etica, al fine di suscitare interesse e coinvolgimento. Deve stimolare il desiderio con colori e profumi, consistenze e forme per soddisfare le loro passioni di esclusività e curiosità. Deve essere un racconto unico e raro capace di instaurare una relazione sensoriale viva e appagante.
Si, in Accademia non stavo imparando solo le tecniche di cottura stavo imparando i racconti del cibo, le cui parole fatte di gusti, aromi, colori sapevano parlare di emozioni, di storie, di fiducia, di amore.
E cosi dopo le lezioni in Accademia si apriva la ricerca di come quel determinato piatto che avevo appena imparato potesse forse essere cucinato diversamente da altri chef di altre cucine, di altre nazioni. E sui fuochi di casa provavo le modifiche per comprenderne le diversità e scoprivo nuove tecniche di cottura, nuovi accostamenti… nuovi spunti, nuovi suggerimenti, nuovi intrecci, che poi riproponevo in Accademia per farmi correggere e guidare da chi era più esperto di me.
Non vedevo l’ora di iniziare lo stage, ma dove? Una cosa era essere in città, diversamente la provincia. Scoprii per caso che un ristorante di una cittadina vicino a dove abito aveva appena convertito la sua metodologia di cucina per sposare la cottura a bassa temperatura. Ottimo. Mi fiondai lì e fui preso. 
Inizialmente mi lasciavano sperimentare i miei piatti come pietanze per il personale di sala e cucina, poi iniziarono a finire in carta. Appresi le tecniche della cottura a bassa temperatura prevalentemente indirizzate alla pietanze a base di carne, mentre io invece iniziavo a diventare vegetariano. Comunque erano tecniche che davano risultati sorprendenti. Il mio stage doveva durare 400 ore ne feci più di 600. Terminai quando mi sentii sicuro di gestire un roner e di poter sperimentare con questo nuovo strumento nuove pietanze… ma stavolta vegetariane.

Dopo l’Accademia, quali direzioni hai seguito per creare il Tuo futuro nel mondo della ristorazione?

All’esame dell’Accademia vinsi il premio accademico. Ormai ero diventato vegetariano, ma non mi interessava tanto presentare un piatto in cui non avessi usato carne o derivati. Mi interessava presenatre un piatto che poteva competere a livello di gusto con quelli onnivori. Le pietanze vegetariane e vegane  che conoscevo il più delle volte annoiavano il mio palato, perchè troppo simili come gusto  e consistenza e comunque poco stimolanti. Io invece ero convinto che si potessero ottenere dei sapori “intriganti” come quelli di un arrosto, di una tagliata, di un fondo bruno o di un ragù anche da ingredienti totalmente vegetali. Ma avevo necessità di acquisire ulteriori conoscenze affinando le mie esperienze per lo più empiriche con l’osservazione e l’ascolto di qualche “maestro” vegetariano. Scelsi lo chef Pietro Leeman e mi iscriissi alla sua accademia. Scoprii così che esiste anche un’alta cucina vegetariana non molto diversa da quella più famosa onnivora. Eppure ogni volta che decidevo di mangiar fuori casa mi trovavo spesso a dovermi accontentare di piatti realizzati per essere contorni a pietanze carnivore. Così mi resi conto che forse era giunto il momento di aprire il mio ristorante e di mettere le basi di un nuovo paradigma culinario che equiparasse le verdure alle carni.

Parlami dell’attività in cui stai lavorando: Qualsiasi curiosità od aneddoto interessante, tipo Quali sono le specialità? Come ti procuri i clienti e come stabilisci il menù ?

La cucina del mio ristorante non utilizza prodotti di origine animale. Da me gli animali sono i benvenuti e possono tranquillamente entrare, tranne che nelle pentole. La filosofia della mia cucina è vegana, ma nessuna delle mie ricette viene da un ricettario vegano. Non uso il tofu che non mi piace, aborro il seitan che è dannoso per l’eccessiva presenza di glutine e non amo i finti salame, spezzatini o hamburger, che abbondano ormai anche sugli scaffali dei discount. 
Adoro i vegetali e mi piace scoprire tecniche di cottura e lavorazioni innovative e complesse, che sanno dare sapori e consistenze completamente nuovi. Basta insistere e soprattutto sbagliare, per capire i percorsi giusti anche e soprattutto dagli errori. 
La mia cucina vegetariana non è mai riduttiva rispetto quello onnivora, anzi è esattamente il contrario. I miei brodi per esempio a 8, 12, 16 verdure competono con quelli di carne senza nessuna timidezza e lo stesso vale per i fondi vegetali.
Uso doppie e triple cotture per enfatizzare le differenti propietà dell’alimento sottoposto a varie temperature. E ottengo così le blanquette di rape, essicate, rigenerate e cotte a bassa temperatura per poi essere saltate in padella e infine imburrate con una crema di cocco, rafano e burro di Malvasia (un nostro burro vegetale al vino), oppure i bocconcini di magia, cubetti di anguria macerati sotto sale, marinati a caldo con oli speziati e successivamente ricotti con fondo di pomodoro e anguria, o ancora la nebulosa di carote, carote essicate, rigenerate e marinate a caldo con un fondo ristretto di carote e condite con una crema di carote cotte, estratto di carote e pasta di sesamo o gli scalogni in festa, cotti prima a bassa temperatura, poi in forno e infine passati in friggitrice, morbidi come il burro dentro e croccanti e friabili come delle chisps fuori.
Naturalmente non tutti i piatti vengono al primo colpo, anzi alcuni non vengono proprio. Eppure talvolta sono così belli a vedersi che è proprio un vero peccato che non si trasformino in delizie. Come per esempio quando facemmo la carasau di melanzane, una bellissima e stupenda pergamena, leggera e croccante… ma da non offrire neanche al nostro peggior nemico tant’era sgradevole.
Il ristorante è molto piccolo, 18 posti a sedere dentro e altrettanti fuori nella piazzetta del piccolo borgo in sassi di Montalbo. All’interno i tavoli sono separati da librerie dove sono sono presenti i libri e i lavori della mia professione precedente. Luce soffusa, quadri di antiche stampe inglesi e musica jazz contribuiscono a creare un ambiente ospitale, tranquillo e rilassante. A un’estremità la parete è occupata dal nostro orto verticale, mentre dall’altra c’è completamente a vista la cucina. Siamo noi a servire direttamente i piatti raccontandoli e questo crea ancora di più legame. I nostri clienti arrivano prevalentemente con il passaparola che animiamo attraverso i social o conttandoli direttamente quando abbiamo un piatto nuovo in carta. La nostra idea è quella di fidelizzare il cliente al massimo cercando di averlo come ospite almeno una volta al mese e quando viene farlo sentire importante. 

Quali sono le regole che hai appreso, o stai apprendendo, nel tuo percorso formativo e lavorativo?

Diciamo che grazie all’Accademia ho costruito le mie regole. Le conoscenze acquisite in Accademia infatti sono state fondamentali. Talvolta erano dirette e riferite ad argomenti specifici, altre volte trasversali, ma in entrambi i casi andavano a riempire quegli spazi vuoti generati dalle tessere mancanti di un puzzle che mi ostinavo di voler realizzare. Una metodologia di lavoro consapevole del cucinare, una forma mentis capace di andare oltre al “mi piace”, per cercare il “funziona”. Penso, anzi sono convinto che cucinare oggi non sia più solo maneggiare una pentola sui fornelli. È qualcosa di più complesso, è avere un pubblico, con cui costruire una relazione e naturalmente generare un feedback che possibilmente deve essere unico ed esclusivo. Ho costruito così un  percorso aricolato in cinque fasi che si susseguono una dopo l’altra e che scandisce l’ideazione e la realizzazione dei miei piatti. 
1 Scomposizione: analizzare la funzione del piatto che si sta creando e le peculiarità degli ingredienti che si vogliono utilizzare. 
2 Ricerca dell’essenza: identificare ciò che è veramente importante, lasciando andare tutto ciò che non lo è, concentrandosi sul focus per elevarlo al massimo livello. 
3 Ricomposizione: arrivare a nuove soluzioni, inaspettate, innovative in cui alcuni alimenti diventano funzioni di altri, in una visione collegiale in cui l’obiettivo è esaltare il piatto nella sua completezza e unicità, come un diamante le cui mille sfaccettature di luce contribuiscono a rendere affascinante l’intera pietra. 
4 Verifica: monitorare l’avanzamento della ricetta, analizzando le problematiche realizzative, migliorandone l’idea, curandone i dettagli, esplorandone l’utilizzo anche in ambiti diversi. 
5. Eticità e contemporaneità: costruire ricette anticpando i bisogni del cliente che diventa ospite e inconsapevole co-creatore, completamente coinvolto in piatti coerentemente salutisti ed etici.

Quale messaggio ti piacerebbe trasmettere a chi sogna un futuro come Chef ?

Non avere paura della fatica. 
Si deve salavaguardare l’artigianalità della cucina senza scendere a compromessi. Sono in opposizione decisa alle vie facili: mi oppongo ai semilavorati che in tanti comprano e che poi rendono la cucina tutta uguale. In un epoca del prêt-à-porter penso si debba invece esaltare la sartorialità: gli ingredienti in cucina devono essere lavorati con estro e maestria per raggiungere un punto più alto di sapore e gusto rispetto al prima della loro lavorazione.
Non avere paura dell’umiltà. 
Per crescere è importante l’umiltà: il nostro cervello deve avere lo spazio e la bramosia di superare le proprie conoscenze per impararne altre, ricalcolando il proprio sapere alla stesso modo di come un navigatore rianalizza il percorso alla luce di nuove varianti, in una forma meticcia di nuovi e vecchi saperi. Non pensare mai quindi di essere arrivati, ma avere sempre lo stimolo della scoperta e dell’apprendimento. Il fatto poi di trovarsi dei maestri e degli chef che sappiano insegnare è il massimo.
Non avere paura del tempo. 
Il tempo è un alleato che porta idee, non un nemico che porta via forze. Essere i primi ad arrivare e gli ultimi ad andar via in cucina vuol dire poter osservare di più. Vuol dire avere un tempo maggiore per fare un’ulteriore prova, per pensare meglio e immaginare soluzioni diverse, per osservare con più attenzione, per chiedere e confrontarsi con gli altri. Perchè la comanda va rispettata, ma non certo a scapito del palato. E se il detto ci suggerisce che il meglio è nemico del fare, ricordiamoci sempre che il meglio è e rimane il meglio, comunque. 
Non aver paura di essere chef. 
Essere chef non è tanto e solo un lavoro, ma una scelta di appartenenza di chi decide di comunicare con il cibo. Il cibo è il racconto di noi ai nostri clienti, ai nostri ospiti. E il sapore e il gusto sono le emozionanti parole con cui li amiamo e ci facciamo amare.

Ringraziamo Arnaldo per averci dedicato del tempo per portarvi a conoscenza della sua testimonianza e gli auguriamo un futuro professionale ricco di soddisfazioni!

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